Agli sgoccioli degli anni ’70 a Roma di arrampicata non se ne parlava quanto se ne parla oggi. La gran parte delle persone celebrava le imprese al nord dei grandi alpinisti, sfogliava i numeri di Epoca con i racconti dei viaggi di Walter Bonatti, programmava le vacanze estive e stava poi a guardare le montagne dal basso. Ma c’era già da tempo una piccola nicchia di persone che invece si era fatta coraggio, aveva seguito il richiamo della roccia e si allenava nella falesia del monte Morra per prepararsi al Gran Sasso e soprattutto alla Dolomiti. Tra i tiri di questa palestra naturale nei monti Lucretili esplorata per la prima volta da Enrico Jannetta nel 1919, sono passati volti, nomi, storie e tra loro c’era Giampaolo Picone.
Dopo esserci rincorsi un po’, conosco la sua voce una sera di un caldissimo luglio romano. Come sempre si tratta di contenere la mia curiosità, soprattutto ora che sono in una fase del mio rapporto con l’arrampicata in cui preferisco sentire raccontare storie di chi ha più coraggio di me che maledire i miei limiti. Giampaolo ha lo stesso entusiasmo che aveva alla fine di quegli anni ’70 quando ha cominciato a mettere mano su roccia e per fortuna non c’è bisogno nemmeno che chieda. Perché di storie da condividere ne avrebbe tantissime: l’apertura de “Il diedro di Mefisto” sul Corno Piccolo del Gran Sasso con l’amico di sempre Pierluigi Bini nel 1978, le sette cime inviolate nelle Alpi di Stauning in Groenlandia con Paolo Caruso e Marco Re nel 1984, l’America Latina negli anni ’90, l’Himalaya e si va avanti fino a non molti anni fa. In realtà però quello che mi incuriosisce di più sono le sue esperienze sulle Dolomiti, perché sono legate ai racconti di come anche noi romani abbiamo partecipato a scrivere un po’ di storia tra quelle montagne.
Prima di tutto, quando hai cominciato ad arrampicare?
Ho cominciato molto tardi, a dire il vero. Avevo all’incirca 20, 22 anni. Come molti avevo cominciato con l’escursionismo, che piano piano era diventato sempre più estremo. Ma è stato l’incontro con Pierluigi (Bini) a farmi innamorare dell’arrampicata: era il 1977, eravamo entrambi al Morra a scalare e si è avvicinato a me perché aveva bisogno di una sicura. Ecco, da quel momento, fino ai primi anni ‘80, abbiamo sempre scalato assieme prima nelle poche falesie che c’erano nel Lazio, come Ciampino e Leano, e poi al Gran Sasso e in Dolomiti.
Se non fosse stato per lui, probabilmente non avrei mai tentato di fare le cose che poi siamo o sono riuscito a realizzare. Mi sarei decisamente tenuto su cose medio facili. È rimasto uno degli amici più cari che ho, anche se poi lui è diventato il rocciatore puro che è ancora oggi, capace di grandi solitarie e io invece mi sono appassionato anche al ghiaccio, al misto e mi sono mosso tanto fuori dall’Italia. Da lui ho anche imparato moltissimo: sì, è stato in grado di fare cose che per molti sarebbero state impossibili, ma ha saputo sempre riconoscere e rispettare i suoi limiti, capendo dove era meglio fermarsi. Arrampicare con Pierluigi rimane una delle esperienze più belle della mia vita.
E invece la prima volta nelle Dolomiti quando è stata? Com’erano le vostre giornate tra montagne lontane da quelle di casa?
La prima volta dovrebbe essere stata alla fine del 1978, ero con Pierluigi e Andrea Liverani e abbiamo tentato il Diedro Buhl al Piz Ciavazes. Adesso potrebbe sembrare una cosa fantasmagorica, ma ci alzammo la mattina presto e in pieno inverno raggiungemmo le Dolomiti in autostop. La prima volta che tentammo di andare con la macchina fu con quella del padre di Pierluigi: era parecchio scassata e l’esperienza fu mostruosa.
Quando eravamo su, si dormiva dove capitava e l’unica cosa a cui si pensava era l’arrampicata. Era un mondo diverso da adesso, i soldi erano pochi e non mancavano le volte che rubacchiavamo qualcosa dai supermercati per mangiare. Vivevamo sulla falsariga di come vivevano in quegli anni in California gli arrampicatori: capelli lunghi, abiti trasandati e, se dobbiamo dirla tutta, eravamo anche un po’ matti. Cosa si tentava ogni giorno veniva deciso direttamente la mattina stessa, ad esempio, e si partiva solitamente verso la metà di luglio per rimanere fuori 30/40 giorni.
In quei primi anni sulle Dolomiti ricordo con affetto anche la presenza di Beppe Aldinio nel nostro gruppetto, morì poi cadendo mentre arrampicava in montagna nel 1981 a soli vent’anni.
Quali sono i momenti che ricordi di più quelle esperienze?
Ritrovarsi dopo alcune ore dalla città a quelle paretone immense era già un elemento importante che ti faceva dire ogni volta “porca vacca!”. La Civetta, la Marmolada, il Piz Ciavazes, il Catinaccio, le Dolomiti di Brenta e molti altri gruppi dolomitici diventavano le nostre nuove case.
La prima ripetizione sul Croz dell’Altissimo nel 1978 è sicuramente una delle esperienze più belle che ho vissuto in Dolomiti, precisamente in quelle di Brenta. La via la chiamavamo la “via dei finanzieri” perché ad aprirla erano stati tre finanzieri appunto: Benvenuto Laritti, Giuliano Giongo e Antonio Rainis. Rimanemmo quattro giorni sotto una specie di capanna ad aspettare che il tempo fosse abbastanza buono per salirla, così come anche i finanzieri stessi che l’avevano aperta e dovevano ancora ripeterla. Loro attaccarono la mattina presto, appena fu possibile, noi un po’ più tardi e li superammo in parete. Ancora oggi quando ci ripensiamo con Pierluigi, ridiamo molto a ricordarci superarli con le nostre Superga ai piedi e lasciarci poi offrire da loro anche la cena a fine di quella giornata.
Dopo essermi rotto una gamba, per molti anni non sono tornato in Dolomiti e mi sono concentrato di più sull’allenamento e sulle spedizioni all’estero. È stato solo negli anni ’90, in compagnia di Renato Vita e Giacomo Satta, che sono tornato da quelle parti ad arrampicare e ho ripreso a costruire bellissimi ricordi, anche sulle Tre Cime di Lavaredo.
Sentendoti nominare le Superga, è inevitabile che ti chieda dell’attrezzatura che usavate in quel periodo.
Sicuramente siamo stati molto fortunati a non cadere troppo e/o male, perché le corde non erano di certo come quelle di oggi. Erano decisamente vecchiotte, come anche i cordini che usavamo. I chiodi invece erano pesantissimi. Ma non ci pesava e non ci pensavamo troppo, eravamo giovani e scanzonati.
Le Superga invece erano la base imprescindibile, con la loro suola gialla. Erano perfette sulla placca appoggiata del Corno Piccolo, così come sulla Marmolada. Quando facemmo una via lì, ci camminai anche in un nevaio. So che Pierluigi ha ancora quelle che usava 50 anni fa e che continua a usarle delle volte ancora oggi. Le prime scarpette vere e proprie le ho cominciate ad usare solo negli anni ’80-’90, avevo un paio di Mariacher de La Sportiva.
Che siano le Dolomiti o le montagne di casa come il Gran Sasso, cosa ti manca di quella parte della tua vita?
Te lo dico con sincerità: la magia della cordata. È proprio una magia. Ho avuto la fortuna di avere sempre compagni di cordata con cui stavo bene insieme al di là della corda che ci univa. Mi manca quel rapporto in cui basta uno sguardo per capire cosa devi fare. Ti capisci già così. Mi manca quell’affiatamento. È una forma magica di rapporto, che mi fa venire i brividi anche ora.
Arrivata l’ora di cena, comprendo che forse sarebbe stato meglio vederci dal vivo, perché avrei altro da chiedere a Giampaolo. Lo lascio andare e penso che sarebbe stato bello essere tra quei giovani spensierati che partivano la notte dal silenzio di Roma a quello del mattino seguente delle Dolomiti, che parlavano in parete con quell’accento diverso rispetto alle altre cordate, che non era lì per scrivere la storia dell’arrampicata ma che alla fine ne ha partecipato lo stesso.
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