La prima volta che mi è venuta voglia di scrivere del fenomeno del greenwashing è stato al ritorno dall’ISPO di Berlino (International Sports Business Network) nel 2019.
ISPO Berlin è una delle principali fiere commerciali internazionali per l'industria degli sport e dell’outdoor ed è dedicata a tutti i prodotti legati allo sport invernale, all'abbigliamento e all'equipaggiamento per il tempo libero.
L'evento attira migliaia di visitatori da tutto il mondo e offre una piattaforma per presentare nuovi prodotti e tendenze, fare networking e partecipare a seminari e conferenze sulla tecnologia, il marketing e le questioni ambientali legate all'industria degli sport e dell’outdoor in generale.
Improvvisamente, da un anno all’altro, da un’edizione all’altra, tutte le aziende erano improvvisamente diventate sostenibili. Nessuna azienda produceva più i propri prodotti utilizzando manodopera minorile ma al contrario sbocciavano ovunque progetti per la realizzazione di scuole. Le pecore che fornivano la lana merinos erano tutte felici e foraggiate con prodotti biologici in allevamenti estensivi a spassoo per l’Australia. Ovviamente la pratica del mulesing era stata improvvisamente ripudiata da tutti gli allevatori all’unisono, un po’ come per la sparizione dell’olio di palma! (qui puoi trovare un articolo sul mulesing che ti spiega cosa è ).
I lavoratori del Bangladesh, del Vietnam, dell’India non erano più sottopagati senza la minima attenzione alle condizioni di lavoro e alla loro salute ma sorridevano entusiasti nelle foto che campeggiavano in formato gigante nei vari stand. I filati erano riciclati, i trattamenti impermeabilizzanti con Pfass erano diventati benefici per la salute e l’ambiente, le colle erano diventate biodegradabili, insomma tutto era prodotto in modo “green”!
Il crollo di Rana Plaza, in cui persero la vita 1.134 persone che confezionavano abiti per rinomate aziende manifatturiere occidentali, era solo un lontano ricordo e la cosa stupenda era che per raggiungere questo cambiamento di rotta epocale … ci erano voluti solo pochi mesi!
Poi nel 2023 è uscito il documentario “Junk – Armadi Pieni”, un documentario molto interessante che indaga sugli impatti ambientali dell'industria della moda. La serie è divisa in episodi che affrontano vari aspetti come la produzione di cotone, la tintura dei tessuti, lo smaltimento dei vestiti, ma il comune denominatore di tutti questi episodi è il focus su come l'industria della moda stia ancora avendo un impatto negativo sull'ambiente e soprattutto sulla vita delle persone coinvolte nella produzione dei vestiti. Assolutamente da vedere !
La consapevolezza che il cambiamento sia solo nel “telling” mentre lo “story” sia sempre lo stesso, mi ha spinto a riorganizzare le idee per condividere con voi qualche considerazione che ho separato in due articoli distinti per agevolarne la lettura:
Il primo è quello che stai leggendo che ripercorre un po’ come si evoluto il greenwashing, il secondo articolo parla di emissioni di C02, di valutazione del ciclo di vita (in inglese Life Cycle Assessment) ma soprattutto sfata alcuni luoghi comuni sulla sostenibilità dei filati naturali riciclati.
Entrambi questi articoli che possono essere letti assieme o separatamente si concludono con una lista delle cose che ogni consumatore può fare per contribuire alla riduzione degli impatti aiutandoti a capire quali potrebbero essere le scelte più sostenibili.
Il greenwashing è una pratica in cui le aziende o le organizzazioni cercano di presentarsi come responsabili rispetto alle tematiche ambientali o sostenibili senza effettivamente prendere misure concrete per ridurre il loro impatto. In altre parole, è un modo per le aziende di ingannare i consumatori facendo credere loro di fare di più per l'ambiente di quanto non stiano facendo realmente.
Le aziende possono utilizzare diverse tecniche di greenwashing, come ad esempio l'utilizzo di termini come "ecologico" o "biodegradabile" senza fornire alcuna prova di queste affermazioni (greenwashing verbale) oppure utilizzare immagini o colori verdi nella pubblicità o nell'imballaggio senza realmente adottare pratiche che mirino alla riduzione degli impatti ambientali (greenwashing visivo).
Il greenwashing é estremamente dannoso perché porta ad una falsa percezione di sostenibilità, impedendo alle persone di fare acquisti basandosi su scelte fondate. Il greenwashing può anche minare gli sforzi delle aziende che effettivamente adottano pratiche sostenibili, facendo apparire la sostenibilità come una moda o , ancora peggio, una tattica di marketing invece di una vera e propria necessità per il pianeta. Questo è forse l’aspetto più grave per chi sta combattendo affinché la sostenibilità diventi un obiettivo imprescindibile, sebbene difficle da raggiungere, per qualsiasi attività umana.
La strategia del greenwashing è necessaria nel momento in cui l’attenzione ambientale è nulla o minima ma si avverte l'esigenza di attrarre anche i clienti più sensibili a queste tematiche migliorando la proiezione del proprio aspetto nell’immaginario del consumatore.
Purtroppo il greenwashing non interessa solo la moda, l'outdoor, il marketing ma è qualcosa che pervade tutte le attività umane e quindi sta diventando un vero e proprio strumento politico come vedremo in seguito.
L'ambientalista statunitense Jay Westerveld utilizzò il termine "greenwashing" nel 1986 per denunciare la pratica delle catene alberghiere che facevano leva sull'impatto ambientale del lavaggio della biancheria per invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani, quando in realtà l'obiettivo era principalmente il risparmio economico attraverso la riduzione dei costi di gestione.
Le aziende colpevoli di greenwashing cercano di nascondere le loro pratiche non sostenibili proclamandosi sensibili ai temi ambientali. Affermano di seguire un processo lavorativo ecosostenibile, ma in realtà mirano a distogliere l'attenzione da altre dinamiche aziendali che non hanno nulla di eco-friendly. In altre parole, queste aziende cercano di insabbiare i loro comportamenti poco green dietro una facciata di responsabilità ambientale. Questo atteggiamento è diventato sempre più diffuso a partire dagli anni novanta, quando grandi aziende chimiche e petrolifere americane, come Chevron o DuPont, hanno cercato di spacciarsi come eco-friendly pur continuando a causare danni significativi all'ambiente.
Fare greenwashing non è poi così difficile partendo dal presupposto che:
Tra i tanti modi in cui si può fare greenwashing sicuramente l’utilizzo di un linguaggio tecnico che utilizzi parole chiave capaci di appagare il senso di colpa del consumatore, è la strategia più facile.
Ecco alcune parole chiave che dovrebbero suonare come un "campanello di allarme"
Attenzione: Queste parole hanno un senso ben preciso ed una grande importanza e quello che dovrebbe cercare di fare un consumatore consapevole è capire se siano utilizzate a sproposito oppure abbiano un reale fondamento ( ... certo non facile!).
Emblematica a la campagna di Enel Energia dell’anno scorso in cui si vedevano paesaggi lussureggianti vagamente tropicali su cui campeggiava la scritta: ”100% Energia Rinnovabile”. In questo caso abbiamo il greenwashing di tipo verbale e visivo senza che venga data nessuna spiegazione su come si possa affermare una tale falsità a meno di non considerare il petrolio come rinnovabile calcolando un arco temporale molto lungo.
La trasformazione delle foreste in petrolio richiede infatti milioni di anni, in un processo noto come fossilizzazione. Durante questo lungo periodo, i resti vegetali e animali presenti nelle foreste vengono seppelliti sotto strati di sedimenti, che esercitano una pressione enorme e creano temperature elevate. Queste condizioni di alta pressione e temperatura promuovono la decomposizione dei materiali organici e la loro trasformazione in idrocarburi, il principale componente del petrolio. Quindi ragionando in astratto il petrolio potrebbe essere considerato rinnovabile. Sarà questo il ragionamento fatto dall’Enel?
Sono inoltre molto comuni slogan e proclami a difesa dell'ambiente eccessivamente vaghi e che rischiano di essere fraintesi da parte dei consumatori che non sono necessariamente esperti di sostenibilità. Affermazioni e proclami che spesso, richiedono di essere interpretati alla luce di informazioni o conoscenze tecniche che non sempre sono accessibili al consumatore finale. Qualche esempio? Citiamone due:
Per avere valutazioni d’impatto ambientali di qualità bisogna affidarsi a società terze certificate che si fanno pagare profumatamente. Non tutte le aziende possono permettersi queste valutazioni e poi quale azienda pagherebbe profumatamente per sentirsi dire che il suo prodotto ha un valore di “energia grigia “ o un Life Cycle Assessment con elevati valori in C02?
Siamo certi che il parametro della Co2 possa discernere tra ciò che è sostenibile e ciò che non lo è?
L'Unione Europea con le misure de Green Deal sta spingendo affinche queste valutazioni sulle emissioni in CO2 diventino obbligatorie. Apparentemente sembrerebbe una notizia rassicurante che ci fa sperare che i governanti dell'Unione siano attenti alla salute e al futuro del pianeta.
... ma se cosi fosse ... come mai il Consiglio dell'Unione Europea ha approvato il 25 aprile 2023 una mozione di eccezione designando gli armamenti come "carbon-neutral" esentandoli dalla tassa sul carbonio?
Missili, caccia bombardieri e carri armati sono stati esclusi dal Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM), che stabilisce una tassa sulle emissioni di CO2 durante la produzione. Il CBAM è uno degli elementi chiave del Green Deal dell'UE e ha lo scopo di imporre un dazio sull'impronta fossile dei beni importati.
Potrebbe sembra che la decisione sia stata presa nell'interesse del complesso militare-industriale statunitense che rifornisce i paesi della NATO ma sicuramente non è così!
Certo viene il dubbio che il problema delle emissioni del CO2 e della sostenibilità non possa essere affrontato unicamente attraverso il comportamento virtuoso dei singoli e che le soluzioni debbano essere ricercate in modo "condiviso" e "politico".
Tra i casi più noti di greenwashing c’è, senza dubbio, quello della compagnia petrolifera Chevron che affermava che i loro dipendenti fossero impegnati attivamente nella tutela di orsi, farfalle, tartarughe. Molto conosciuto è anche il caso Coca-Cola Life che, qualche anno fa, parlò della sua bibita come un prodotto a basso contenuto calorico per la presenza della stevia al posto dello zucchero (pianta sudamericana molto più dolce della canna da zucchero e della barbabietola ma senza calorie).
Potremmo citare anche lo scandalo della Volkswagen che nel 2015 è stata scoperta ad installare filtri antiparticolato tarocchi sui suoi veicoli diesel consentendogli di superare i test sulle emissioni. Questo ha dimostrato che l'azienda stava pubblicizzando la sua linea diesel come più pulita e rispettosa dell'ambiente di quanto non fosse in realtà e che i tedeschi non fossero poi molto meglio degli italiani!
In Italia, tra i casi più noti di greenwashing c’è stata la pubblicità di Ferrarelle che pubblicizzava la bottiglia a “impatto zero” promettendo la compensazione della CO2 emessa con la piantumazione di nuove foreste: l’azienda però è stata multata perché la definizione di “impatto zero” lascia intendere che la CO2 venisse interamente compensata mentre invece non era il caso.
Nel 2010 anche San Benedetto è stata multata per avere presentato la sua bottiglia di plastica come “amica dell’ambiente” in diverse pubblicità.
Anche l’azienda Sant’Anna è stata multata nel 2012 perché nella pubblicità sull’eco-bottiglia riportava pregi ambientali superiori alla realtà.
Dopo il video della tortuga Caretta carretta che soffoca con la cannuccia di plastica nel naso, video che ha fatto il giro del mondo sui social, nel 2020, McDonald's ha annunciato di aver eliminato le cannucce di plastica dai suoi ristoranti, presentandolo come un grande passo verso la sostenibilità. Tuttavia in molti hanno fatto notare che l'azienda continua a produrre enormi quantità di rifiuti di plastica e che la rimozione delle cannucce è solo una piccola parte del problema legato alla produzione di plastiche usa e getta che a livello mondiale sta aumentando in maniera esponenziale (certo non solo per colpa di McDonald’s).
Seguendo l’esempio di McDonald’s la grande distribuzione alimentare mette sempre più in risalto come i prodotti in vendita (in particolare frutta e verdura) vengano selezionati tra quelli di prossimità e quindi strettamente connessi al territorio. Questo è un aspetto molto positivo ed importante però la grande distribuzione alimentare sorvola completamente sul fatto che sempre più questi ortaggi vengono imballati in piccole porzioni monodose e comunque sempre di più in reti e retine di plastica, contenitori di polistirolo, rivestimenti di cellofan. E’ oramai praticamente impossibile (l’epoca del Covid ha accelerato grandemente il fenomeno per una questione di igiene e contagio) acquistare prodotti sfusi e questo ha un impatto negativo sull’ambiente sicuramente superiore all’ammirevole decisione di acquistare prodotti di prossimità;
In generale quindi nei casi più frequenti di greenwashing la comunicazione si caratterizza perché:
Ma come dicevamo prima, in tutti questi casi si tratta di un greenwashing relativamente facile da riconoscere in cui le balle raccontate dalle aziende sono al limite del grossolano, un po’ come quel noto marchio di pasta italiano che sosteneva di utilizzare “solo grano italiano” e che poi giustificò l’aumento del prezzo sugli scaffali con il blocco navale del grano ucraino!
Esiste però un ulteriore tipo di greenwashing molto più pericoloso ed è quello che definiremo come il “greenwashing di seconda generazione”, dove è il postulato di base ad essere falso e non l’assenza di certificazioni oppure la non conformità di quanto affermato con la realtà
Il greenwashing di seconda generazione avviene sempre nello stesso modo, si focalizza il consumatore su di un solo aspetto del processo sorvolando su tutto quello che invece potrebbe avere impatti negativi. Si tratta non ti mentire ma di dire solo una parte della verità si sta diffondendo moltissimo con il risultato di rassicurare il consumatore passivo (la stragrande maggioranza) e disorientare il consumatore consapevole.
Il greenwashing di seconda generazione è politico perchè funziona grazie al meccanismo degli eco-incentivi che vengono concordati nei palazzi del potere.
Solo qualche spunto per capire meglio cosa sia il green washing di seconda generazione:
Per quanto riguarda l’Italia fino al 2014 non esisteva un riferimento legislativo specifico per il greenwashing ma il controllo era affidato all’Antitrust sotto la disciplina della pubblicità ingannevole.
Nel marzo 2014, l’Istituto Autodisciplina Pubblicitaria ha pubblicato la 58° edizione del Codice di Autodisciplina Comunicazione Commerciale, che propone una prima base di riferimento all’abuso di diciture che richiamino la tutela dell’ambiente.
Esistono varie certificazioni ambientali come gli standard EMAS (standard europeo che prevede la pubblicazione di una “dichiarazione ambientale” che tenga conto di vari parametri) e ISO 140001 (riferimento internazionale per linee guida e i requisiti minimi per ottenere una certificazione), ma anche il GRS, ovvero Global Recycled Standardper quanto riguarda chi si occupa di materiali riciclati. Oppure la certificazione ICEA (Istituto per la Certificazione Energetica e Ambientale) per quanto riguarda le materie o il GOTS (Global Organic Textile Standard) per quanto riguarda materiali e processi.
Questi strumenti di marcatura ed etichettatura italiani e/o internazionali dimostrano l’attenzione delle aziende ai regimi di tutela ambientale e risparmio energetico ed il rispetto di stretti protocolli.
Un’analisi della commissione europea del 2021 ha rilevato come il 53% delle dichiarazioni di sostenibilità delle aziende siano vaghe, fuorvianti oppure addirittura infondate.
Dallo stesso studio sembra che il greenwashing sia più frequente nel modo della moda dell’abbigliamento ma diciamo pure che è l’agricoltura che ha aperto le porte al greenwashing spacciando il biologico e i suoi infinti protocolli e certificati spesso discordanti tra loro, come l’unica soluzione per tendere verso un’agricoltura sostenibile a discapito di pratiche molto più sostenibili come ad esempio la permacultura solo per citarne una.
Nel 2021 solo il 31% dei marchi che si dichiaravano sostenibili ha potuto dimostrare che un organo indipendente ed esterno aveva concesso una certificazione, e qui si apre il tema del business green dove la certificazione diventa e diventerà fondamentale indipendentemente dalla fondatezza dei principi di base, proprio basandosi sul collaudato modello agricolo.
In breve chi ha i soldi ha il certificato, chi non ha i soldi può essere sostenibile quanto vuole ma il certificato se lo sogna. Vi ricordate il bellissimo simbolo della Lana Vergine, parliamo di anni 80/90, beh esiste ancora nonostante si veda sempre meno. Quel simbolo certifica che si stanno utilizzando lane vergini e non riciclate (come ad esempio le lane cardate) ed è nato in anni in cui il riciclato era considerato qualcosa di qualità inferiore e più economico. L’utilizzo di quel marchio, sebbene obsoleto, costa ancora 20.000€ all’anno.
La Commissione Europea ha pianificato di presentare una direttiva per verificare la veridicità delle affermazioni riguardanti la sostenibilità ambientale ma come la maggior parte delle politiche europee volte ad agevolare le grandi multinazionali e penalizzare i piccoli produttori (in perfetta linea con il modello capitalistico dell’Agenda 2030) queste direttive avranno sicuramentel’effetto di favorire i grandi gruppi spesso meno attenti agli aspetti dell’ambiente e della territorialità.
La direttiva prevede l’introduzione di 13 parametri appositamente scelti ad ok per favorire determinati settori in modo da non penalizzare eccessivamente le emissioni C02 legate, le produzioni decentralizzate in Asia e Sudamerica, oppure l’utilizzo di plastiche e microplastiche.
Questa delle certificazioni è qualcosa che ci interessa da vicino visto che utilizziamo filati naturali con certificazione G.O.T.S oppure lane con certificazioni No Mulesing e ZQ.
Limitiamoci però a fare un esempio così da inquadrare il problema delle certificazioni una volta per tutte:
La lana italiana che acquistiamo in Abruzzo, prelevando il vello dagli allevatori, e che portiamo a filare senza aggiungere filati sintetici e a tingere rimanendo sempre sul territorio italiano non ha nessuna certificazione ambientale in quanto si tratta di produzioni semi artigianali realizzate da piccole realtà economicamente poco rilevanti che non hanno la possibilità di richiedere queste certificazioni (estremamente onerose) pur avendone tutti i requisiti.
La lana merino della Nuova Zelanda, che passa nel mercato cinese per essere venduta alle grandi aziende europee che effettuano la filatura, inserendo sino ad un massimo del 7% di acrilico consentito per legge senza la necessità di dichiararlo (normativa EU) posseggono invece le più prestigiose certificazioni ambientali.
Siamo sicuri che la lana merinos con il suo carico di energie e di emissioni necessarie a fargli fare il giro del mondo sia più sostenibile di una lana italiana prodotta da un piccolo allevatore abruzzese che fa vivere il suo gregge al pascolo per nove mesi l’anno?
E quindi cosa possiamo fare per orientarci in questa giungla di spietati marchi internazionali che ci spacciano prodotti fino a ieri inquinanti come la panacea per l’ambiente?
Che cosa possiamo fare per evitare di passare la nostra vita a studiare quale prodotto o quale processo sia più sostenibile di altri?
Ci sono molte organizzazioni indipendenti che valutano l'impatto ambientale e sociale delle aziende e dei loro prodotti, e queste informazioni possono essere utili per fare scelte informate. Eccone alcune:
· Textile Exchange
· Remake
· Redress
· Fashion Revolution
· Ethical Trade
· Clean Clothes Campaign
Questo è sicuramente un modo ma … permetteteci di dubitare della totale trasparenza delle ONG e soprattutto della loro imparzialità (ho lavoro per più di dodici anni con molte ONG internazionali ).
Partiamo dal presupposto che: “business is business” e che quindi in un modo o in un altro ci sarà sempre la possibilità di influenzare i giudizi di chi ha bisogno di finanziamenti per sopravvivere. Quello che invece non sarà mai possibile e di influenzare il vostro giudizio personale a patto che accettiate di essere obiettivi e di “uscire dal sentiero tracciato”!
Quindi la cosa più importante è che i consumatori siano critici e facciano la propria ricerca prima di acquistare un qualsiasi prodotto.
La consapevolezza di quello che si sta per acquistare è alla base di una scelta sostenibile.
Premesso che la consapevolezza è alla base di ogni scelta sostenibile sappiamo bene che essere consapevoli richiede tempo ed energie e se informarsi è difficile, informarsi su tutto è impossibile anche perché i media propongono tutto e il contrario di tutto ed informarsi correttamente diventerebbe un lavoro a tempo pieno!
Costituire un GAS può essere una buona soluzione almeno per quanto riguarda gli acquisti comunitari di cibo e consumabili per la casa. In un GAS ( Grupo di Acquisto Solidale) ogni membro può concentrarsi solamente su di un prodotto o su di un processo identificando le offerte migliori di un determinato territorio ed occuparsi dell’acquisto per l’intero gruppo.
Sicuramente è più difficile immaginare di acquistare vestiti in gruppo a meno di fondare una comune o un kibbutz ... anche se al momento non è più tanto di moda.
E allora?
Innanzitutto non bisogna farsi prendere ne' dal panico ne' dallo sconforto. Il problema è estremamente complesso da risolvere ma ricordatevi che :
per problemi complessi esistono solamente soluzioni semplici
Ma soprattutto scegli prodotti fatti in Europa, oppure ancora meglio se fatti nel tuo paese, nella tua provincia, nella tua città, nel tuo quartiere, sul tuo pianerottolo
SCEGLI IL PRODOTTO PIU' VICINO a te e questo per quattro motivi fondamentali:
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